2014, l’anno dell’addio alla pellicola. Anche l’Italia si piega al digitale

KEN LOACH qualche settimana fa ha lanciato un appello. Chiuso in sala di montaggio a lavorare al suo ultimo film di finzione Jimmy’s Hall, il regista inglese di Terra e libertà e La canzone di Carla si è reso conto di non avere più pellicola a disposizione e ha affidato al sito Screendaily il suo SOS. Pochi giorni dopo la Pixar gli ha fatto recapitare 19 rulli di triacetato di cellulosa con un biglietto: “A Ken Loach e alla sua troupe. Buona fortuna dai montatori della Pixar”.
La data è più simbolica che operativa, ma il 31 dicembre 2013 segnerà la morte della pellicola cinematografica. A partire da gennaio, al netto di qualche ritardo inevitabile, si dirà addio alle “pizze” con un passaggio al digitale. Dopo la chiusura della giapponese Fuji, la fabbrica della Kodak è rimasta l’ultima a produrre pellicola cinematografica in modo industriale. Se la sede romana che riforniva Cinecittà e quella di Parigi hanno chiuso i battenti, l’unica operativa oggi risiede a Rochester, in Illinois.
Anche i registi italiani, divisi tra entusiasti e rassegnati, stanno andando verso un futuro totalmente digitale, 8 cineasti su 10 ormai hanno abbandonato definitivamente la pellicola. A fronte di un nostalgico Paolo Sorrentino che per La grande bellezza ha scelto ancora la striscia di triacetato di cellulosa, sono sempre di più gli autori che passano al digitale. “È un’esperienza magnifica, uno strumento più docile, che stimola la creatività”, dice un entusiasta Pupi Avati, reduce dal set di Il ragazzo d’oro con Riccardo Scamarcio e Sharon Stone, il suo primo film senza pellicola. “Al di là dei costi, ovviamente più contenuti, quello che mi piace del digitale è che ti permette di utilizzare più macchine da presa simultaneamente e di girare in condizioni di luce precarie. E poi ti consente di nascondere la cinepresa anche agli interpreti. Per una scena del film l’ho nascosta tra i libri di una biblioteca e Scamarcio non sapeva dove guardare, con un effetto di maggiore verità. C’è solo un aspetto che non mi piace: tutti quei monitor sul set con la troupe che vede tutto. Io, se posso, li faccio sparire. Per me il cinema deve rimanere un mistero”.
Foto2014, l’anno dell’addio alla pellicola. Anche l’Italia si piega al digitale.
Al gruppo dei nostalgici invece appartiene Daniele Luchetti che si è rassegnato a dire addio alla pellicola con il suo ultimo film, il personale e in parte autobiografico Anni felici, girato in tre formati, 35, 16 e 8 millimetri nelle parti in cui il piccolo protagonista (il Luchetti bambino) filma la sua famiglia. “All’inizio pensavamo di girare quelle scene in digitale, ma poi è stato molto più semplice girarle proprio in Super8 – racconta il regista – esiste ancora un gruppo di appassionati che lo utilizza, ma per lo sviluppo bisogna mandarle in un laboratorio a Berlino. È lo stesso passaggio che c’è stato dal vinile al cd, ma con la differenza che per il cinema la pellicola è durata più di 110 anni. La pasta della pellicola è la pasta delle storie, il tono e il colore del digitale non sarà mai lo stesso. Quella che tecnicamente si definisce “profondità colore” nel digitale non esiste. È come andare in un agrumeto e non sentire il profumo delle arance. So che il prossimo mio film ormai sarà in digitale, ma trovo scandaloso che noi registi non abbiamo pensato di scrivere una lettera alla Kodak dicendo: “Conservateci una linea di produzione della pellicola”.

In questi ultimi mesi che ci separano dalla fine della produzione assistiamo al canto del cigno della pellicola. Il regista Guido Chiesa (Il partigiano Johnny), sceneggiatore e produttore dell’esordio da regista di Paolo Ruffini Fuga di cervelli, ci rivela: “Pensavamo di girarlo in digitale e poi paradossalmente è stato più economico farlo con fondi di magazzino di pellicola, per non parlare delle cineprese, che vengono proprio svendute”. Al di là delle scelte produttive e autoriali dei registi il futuro delle proiezioni è ovviamente digitale: distributori ed esercenti si stanno muovendo in questi mesi per rendere il passaggio più indolore possibile.

“L’Italia rispetto al resto dell’Europa è in ritardo, il parco sale si sta digitalizzando a macchia di leopardo nel nostro paese, siamo alla corsa finale – dice Andrea Occhipinti, presidente dei distributori dell’Anica nonché titolare della Lucky Red – Per noi distributori il passaggio è cruciale, la distribuzione in digitale ha naturalmente tanti vantaggi economici, ma anche maggiore versatilità e qualità di proiezione. Dopo una settimana una pellicola è già graffiata, mentre una copia digitale si deteriora molto più lentamente con l’uso. Sono convinto però che per un po’ di tempo rimarrà ancora una distribuzione mista. Il nostro ultimo film La vita di Adèle, per esempio, è arrivato nelle sale per un terzo ancora in pellicola e solo per due terzi in digitale”.

L’emergenza riguarda quel migliaio di sale che ancora non si sono adeguate e che non hanno i mezzi finanziari per farlo. “Ad oggi il 61% degli schermi italiani sono stati digitalizzati e si pensa che per la fine dell’anno si arrivi al 70% – spiega Lionello Cerri, presidente dell’Anec, associazione degli esercenti cinematografici, nonché titolare dei cinema Anteo e Apollo di Milano – L’investimento da considerare è dai 50 ai 70 milioni di euro e alcuni tipi di sala che funzionano attraverso strutture familiari o volontaristiche non riescono a sostenerlo. Sono cinema prevalentemente monoschermo ubicati nei piccoli centri. Per mantenere i 100 milioni di spettatori che abbiamo oggi in Italia chiediamo di allungare i tempi di questo “switch off”. Stiamo lavorando per non far morire i piccoli cinema”.

Fonte Repubblica.it

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