A viso aperto

“Ce ne andiamo via da qui”, disse il mister.

“Dove?”, chiesero i ragazzi.

“In Francia, ho un amico che ci ospita. Ci prendono tutti a giocare da loro”.

“Gliela diamo vinta, mister?”.

“Quelli hanno già vinto”.

“Votiamo”, propose qualcuno fra i ragazzi. “Chi vuole restare scriva sì”.

Dodici sì, un no. Decisero così, con tredici striscioline di carta buttate nel secchio delle birre, nello spogliatoio, prima della partita. “Finiamo il campionato, lo vinciamo”.

Questa è la storia vera della squadra del La Plata Rugby club, una storia che da 35 anni si mormora, ogni tanto qualcuno la racconta ma piano, sottovoce. “Perché essere gli ultimi, sopravvivere al male è sempre un peso insopportabile. Il segno di una colpa che non esiste ma che ti covi dentro come un’ulcera”, dice Claudio Fava che ora quella storia l’ha scritta in un libro, “Mar del Plata”. “Avevo letto l’articolo di Gustavo Veiga, il giornalista argentino che aveva ritrovato l’ultimo superstite. Allora ho cominciato a cercare, senza fretta, luoghi e memorie”. Senza fretta, per anni. L’ultimo superstite, l’unico, si chiama Raul Barandiaran. I suoi compagni di squadra sono stati rapiti torturati e uccisi uno per uno, fra una domenica e l’altra, nel campionato di rugby a sette del 1978. Ogni domenica alla partita ne mancava uno, a volte due. Non avevano colpe, nessuna colpa. Il primo a sparire, un ragazzino di 17 anni, era iscritto ad un’organizzazione studentesca, a scuola. Per questo e solo per questo lo hanno aspettato sotto casa nella Buick nera, lo hanno portato via, lo hanno ucciso con un colpo alla nuca e le mani legate dietro la schiena col filo di ferro. Riaffiorato nel fiume, due giorni dopo. Nessuno degli altri capiva perché, nessuno sapeva. Ma che fossero stati “quelli” – quelli, e basta – si sentiva anche senza saperlo. E allora alla partita della domenica successiva il minuto di silenzio, già da solo un azzardo se non autorizzato dalle autorità, senza che nessuno lo decidesse, lo chiedesse, è diventato da solo un tempo di silenzio infinito: dieci minuti, lo stadio in piedi in un tempo sospeso, dieci minuti di silenzio pieni di tutte le parole non dette, indicibili. Da quel momento all’Esma, la scuola militare dell’Armata, scatta l’ordine. Eliminateli tutti. La squadra deve sparire, stanno per cominciare i mondiali di calcio, nessuno dei giornalisti che arriveranno dal mondo intero deve sapere niente di questi ragazzini sfrontati: non esistono, non ci sono mai stati, uccideteli.

Il racconto procede così, giorno per giorno lungo le poche settimane che separano il primo omicidio dalla fine del campionato. El Mono, el Turco, Santiago, il loro allenatore dalla gamba offesa, Passarella. Ogni volta che ne scompare uno la domenica successiva viene rimpiazzato da una riserva, un ragazzino sempre più giovane, i sedicenni, i quindicenni. E’ una squadra di bambini spaventati e innocenti quella che arriva in finale. I titolari sono morti tutti. Anche l’allenatore hanno ucciso. Tutti. Resta solo Raul. Perché qualcuno doveva raccontarla questa storia, un testimone doveva restare. Resta Raul Barandiaran, che dopo trent’anni la ricorda come fossero fotogrammi di un film. Che spiega quel che Claudio Fava racconta, quello che parla a ciascuno di noi oggi, proprio adesso. Dice che a tutte le latitudini e in ogni tempo ci sono ragazzi pronti a sfidare un destino già scritto, a Buenos Aires come a Catania, per tenere fede all’impegno di una partita da giocare o a un turno di scorta da fare. E certo che una squadra intera di rugby annientata dal capriccio e dal livore dei militari è una storia gigantesca e memorabile, un film già pronto per il successo e la commozione planetarie, ma sempre, sempre anche nelle piccole storie di ogni giorno vale la legge sublime della dignità e del coraggio, vale la regola che il nemico che ti ha già sconfitto non si abbraccia chiedendo clemenza ma si affronta a viso aperto fino all’ultimo. E’ solo così, solo alzando il mento, che si vince anche quando sembra di perdere. Si vince il campionato e a volte la partita grande, quella con la storia.

di Concita De Gregorio

Fonte Repubblica.it

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Blue Captcha Image
Aggiornare

*