Cronache dall’Italia in crisi: “Così siamo diventati poveri”

I  NUMERI non rendono l’idea. Siamo assuefatti, bombardati. Non li  tratteniamo neppure il tempo necessario perché si traducano in un  pensiero. Sono le storie che parlano. Quelle sì, quelle somigliano tutte  a qualcosa che sappiamo. La commessa del super, il fornaio dove vai a  comprare le rosette, il ragazzo che ha l’età di tuo figlio, il padre di  mezza età, la madre.
Questa è l’Italia, questi siamo noi.  Narcotizzati da una campagna elettorale che discute di pensioni e di  tasse, di esodati e di aliquote: un mondo politico che parla, provando a  farsi votare, a chi il lavoro ce l’ha o ce l’ha avuto. Ma quasi la metà  del paese non ha lavoro, lavora al nero, ha redditi sotto i mille euro.  La media delle famiglie  italiane guadagna meno di ventimila euro  l’anno, dicono i dati ministeriali, con buona pace delle discussioni  sulla patrimoniale per chi ha redditi sopra il milione o il milione e  mezzo.
C’è differenza fra ventimila e un milione, una differenza  così grande che genera, in chi non trova ascolto, rabbia, ostilità,  fragilità, disillusione. Siamo tornati poveri, dicono i dati Istat. Più  di otto milioni di italiani, una famiglia su dieci spende circa mille  euro a testa al mese, la cifra sotto la quale l’Istat stabilisce la  soglia di povertà  relativa.
Indietro di 27 anni. Ma nemmeno questo rende l’idea perché ormai sono  anni che separarsi è diventato un lusso da ricchi, che il ceto medio è  scivolato verso l’indigenza, che i padri che pagano gli alimenti dormono  in macchine e vanno a mangiare alla Caritas. La novità, oggi, come  queste sei semplicissime storie raccontano, è che nell’indifferenza  diffusa comprare a metà prezzo il pane di ieri, fare la spesa al super  di carne in scadenza e quindi in saldo, nascondere la laurea per trovare  un lavoro da 800 euro o laurearsi per poi servire ai tavoli di un pub,  al nero, è diventato assolutamente normale.
Tutto intorno è  così. L’ascensore sociale non è solo fermo, guasto, bloccato dal  malaffare e dal malgoverno. Torna indietro. Non sale: scende. I figli  hanno un destino peggiore dei padri, il giovane laureato in Legge,  figlio di operai del Sud, ha vergogna a dire che non sa che farsene del  suo titolo, non sa come spiegarlo ai genitori. Non va avanti, non può  tornare indietro. È il lavoro che manca. È l’unica cosa di cui parlare,  la sola di cui una campagna elettorale dovrebbe occuparsi: offrire un  progetto per restituire lavoro al Paese. Senza libertà materiale non c’è  libertà politica né democrazia. Il resto sono chiacchiere.

LA CASSIERA “Vedo tanti pensionati a caccia di super-sconti tra i prodotti in scadenza” “Può scrivere solo il mio nome? Non vorrei passare un guaio, mi manca  solo quello. Giovanna. Faccio la cassiera qui da otto anni, delle prime  sono rimasta l’ultima. Ora arrivano tutte ragazze che stanno tre mesi  meno un giorno, poi cambiano. Contratti di formazione, li chiamano: ti  danno due euro, ti “formano”, poi ti mandano a casa e avanti un’altra.  Così se ne va la giovinezza e poi dopo a quarant’anni dove lo trovi un  impiego? Sì, qui nel nostro “super” facciamo gli sconti last minute. Non  li ha visti? Sono quelli con il prezzo in giallo. Se il formaggio, o il  latte, o la carne sono a 24 ore dalla scadenza costano fino all’80 per  cento in meno. Roba da mangiare subito, la sera stessa, prima che vada a  male. Ma ancora buona, eh. Guardi, si fermi a guardare: la comprano  tutti. Vede, qui a San Giovanni in Laterano, ci vivono moltissimi  pensionati. Vengono col borsellino con la cerniera e dieci euro dentro,  la busta di plastica da casa. Che poi uno dice pensionati e pensa agli  anziani, ma i pensionati che vedo io hanno anche meno di sessant’anni. A  58 anni non sei vecchio, ma se da un giorno all’altro i duemila euro di  stipendio diventano 900 di pensione e se hai ancora i figli a casa…  Sapesse quante ne sento. Allora per forza devi comprare la carne che  scade. Guardi, guardi. Perché non si direbbe, no? Li vedi ben vestiti,  poi arrivano alla cassa e fanno passare tre oggetti. Ormai pagano più in  monete che in banconote. Abbiamo anche un accordo con le scuole: i  punti della spesa si possono devolvere all’istituto di quartiere per il  materiale scolastico. Sì, alla scuola pubblica, perché?”

L’OPERATRICE DI CALL CENTER “Tre donne, quattro figli: con una casa in comune arriviamo a fine mese” “Mi chiamo Antonia L. Ho 57 anni, una figlia di 18 che vive con  me. Ho cominciato a lavorare al call center quando mi sono separata,  tre anni fa. Il mio ex marito non è in condizione di darci niente.  Prendo, come tutti, 80 centesimi lordi a chiamata. Il mensile dipende da  quanto lavoro. Se sono in salute, se ci metto gli straordinari posso  arrivare a 800 euro. Ne pagavo 400 di affitto, più un centinaio di  bollette varie. Con i 300 euro che restavano a vivere in due non ce la  facevamo. Come me le altre, che al call center siamo soprattutto donne, e  tante sole con figli. Con due di loro siamo andate a vivere insieme, un  paio di anni fa: un appartamento a Cinecittà. In casa siamo tre donne,  una ragazza, la mia, e tre bambini. Ciascuna dorme in camera coi figli.  Facciamo la spesa a turno, una volta alla settimana, al discount. A  turno laviamo, cuciniamo e assistiamo quelli che si ammalano così se una  ha il figlio con la febbre può andare lo stesso al lavoro. Ci prendiamo  anche una serata libera, a rotazione. Abbiamo una macchina sola, una  tv, un computer. Dividiamo tutto, per orari e per giorni. È una specie  di comune anni Settanta: solo che allora lo facevamo per scelta, ora per  necessità. Mio padre era impiegato, mia madre maestra. Hanno laureato  tre figli, avevamo una casetta al mare. Io la mia laurea ho dovuto  nasconderla, sennò ero troppo qualificata per ottenere il lavoro. Mia  figlia dice che l’università non serve, non so più cosa risponderle. Da  ragazza facevo politica, sono stata anche iscritta a un partito. Ora no,  a votare non ci vado più”.

IL PANETTIERE “Vendo a metà prezzo il pane del giorno prima: c’è la fila per comprarlo” “Abbiamo fatto mettere un cartello fuori: “Il pane di ieri a  metà prezzo”. Ho raccomandato ai dipendenti discrezione per non urtare  le suscettibilità di nessuno. Sa com’è: siamo tutti benestanti fino a  prova contraria, il paese è piccolo, la gente parla, la dignità non ha  prezzo. Però vedo che lo chiedono in tanti, il pane di ieri. Mi chiamo  Luigi Di Ianni, ho 64 anni. Facevo il commerciante, qui a Sulmona.  Quando sono andato in pensione ho rilevato il forno “Profumo di pane”,  che è anche una pasticceria. Un’attività di medie dimensioni: tre punti  vendita, mia moglie e mio figlio piccolo che mi aiutano e nove  dipendenti. Questo Natale è stato un disastro. I dolci prima si  vendevano tutti i giorni, ora a stento per le feste e la domenica. Il  pane da noi siamo abituati a comprarlo in forme grandi, e si butta. Uno  spreco che non ci possiamo più permettere. Mia madre faceva il pane con  le patate che durava venti giorni. Allora ho pensato: ma perché abbiamo  smesso di fare così? Se avessimo fatto attenzione, in passato, se  fossimo stati più sobri… Io le vedo le persone a negozio, la conosco  Sulmona. Sta morendo. Siamo in provincia dell’Aquila, abbiamo passato  tristi giorni. Molti sono in cassa integrazione, molti hanno i figli che  sono tornati a casa, e tocca mantenerli. Io stesso, se guardassi solo i  conti, farei meglio a chiudere. È un impegno verso gli altri,  l’impresa. È buono ancora, sa, il nostro pane di ieri? E poi il pane è  sacro. Non si butta. Vedo che lo chiedono, infatti. E magari dicono per  giustificarsi: sa, ci devo fare le polpette, i ripieni. Che importa se  non è vero”.

L’IMPRENDITRICE FALLITA “Noi strozzati dai debiti, mio padre si è ammazzato e l’azienda non c’è più” “Ho scritto a Monti, a Napolitano. Volevo solo che sospendessero le  ingiunzioni di pagamento. Mio padre si è ammazzato per quello. Per  rimetterci in piedi ci voleva un po’ di tempo, un po’ di liquidità,  soprattutto avevamo bisogno di non essere in mora coi pagamenti. C’è una  legge per i casi come il nostro, ho controllato. Ma non è successo  niente. Passavano i mesi e le ingiunzioni continuavano ad arrivare. 200  mila. 180 mila euro a volta. Ma creditori di chi? Papà si è sparato.  L’azienda non c’è più. E lo sa poi cos’è che lo ha rovinato?  L’amministrazione pubblica. I lavori fatti e non pagati. Fatti,  consegnati, con la mano d’opera e i materiali pagati: e i pagamenti  delle municipalizzate, delle Asl che non arrivavano mai. A nove mesi, a  dodici mesi. E se protesti è peggio, perché poi non lavori più. Ma come  fai ad aspettare e intanto pagare i contributi ai dipendenti? Da dove li  prendi i soldi? E se ritardi la stessa amministrazione pubblica che non  ti paga i lavori ti nega la patente di legalità, non ti dà le carte che  ti servono per accedere ai crediti bancari. E così muori, perché poi ci  sarebbe da parlare dell’usura bancaria, l’usura legale che ti strozza e  ti mette in ginocchio ma io non ne voglio parlare perché sono stanca e  non ne posso più. Ho un figlio piccolo devo pensare a lui. Avevo pensato  di andare via dal mio paese, dalla mia regione che è il Veneto, certo,  il polmone produttivo d’Italia, come no. Ma poi dove vado. Mi chiamo  Flavia, lasci stare il cognome. Sono stanca, gliel’ho detto. Tanto qui  da noi lo sanno tutti chi sono e sono stanca anche di questo. Vorrei  solo sparire”.

IL SEPARATO “Lo stipendio da grafico se ne va per mio figlio: adesso vivo di carità” “Cosa vuole sapere che non abbia già raccontato? Ora vengono  tutti a intervistarci come se fossimo bestie nello zoo: “Le case dei  padri separati”, scrivono nei titoli, e poi sotto sempre le stesse  storie, tutte uguali. Cosa c’è di interessante? Non è normale? E poi  perché tutti ora? Sono anni che va così e nessuno si è mai occupato di  come vive un uomo che guadagna 1200 euro e si separa, deve pagare gli  alimenti e mantenere i figli piccoli. Come vuole che viva? Con 300 euro  al mese, vive. Oppure va per strada. Dorme in macchina. Sì, va bene,  scriva. Mi chiamo Umberto, ho 52 anni, da otto mesi sto in una stanza  dei Padri oblati di Rho. Mio figlio ne ha 11 e sta con me una settimana  ogni due. La casa l’ho lasciata alla madre. Quando viene qui dormiamo  nello stesso letto, anche se ormai è grandino. Ma non protesta. Prima,  quando giravo per i divani letto degli altri, era peggio. Sono  diplomato: grafico. Lavoro in una ditta, faccio il materiale  pubblicitario. Ho provato a cercare un secondo lavoro, ma è un miracolo  se sono riuscito a tenermi il primo. Per un periodo sono andato in  depressione. Dopo l’apatia mi è venuta su una rabbia pazzesca. Ma come è  possibile, dico, che si debba campare di carità? Ho smesso di guardare  la tv, a sentire i talk show politici mi montava la furia, il resto è  schifezza per addormentarsi. La macchina l’ho venduta, mio figlio a  scuola lo accompagno coi mezzi. Lui si vergogna, vuole che scendiamo  alla fermata prima della scuola. Non bisognerebbe separarsi mai.  Resistere, ingoiare ma restare. Io non ce l’ho fatta, e ora pago”.

IL LAUREATO “Avvocato sulla carta faccio il cameriere per 400 euro al mese”   “Mi chiamo Giuseppe Minafro, ho 24 anni, la mia famiglia è di Sala  Consilina, una frazione. Siamo di origine contadina, i miei genitori  operai. Ho due fratelli, un maschio e una femmina. Non ci è mai mancato  niente. Ho visto i miei lavorare sempre, tanto, ma la domenica a tavola  c’era la torta e il vino dolce, d’estate si andava in vacanza al mare,  stavamo bene, noi figli abbiamo studiato tutti. Certo che i miei hanno  fatto i sacrifici, per noi, specialmente per me che mi hanno mandato a  Roma e mi hanno pagato i libri, l’affitto della stanza, i biglietti del  treno per andare e tornare. Io mi sono laureato, ora: Giurisprudenza,  con una tesi in diritto penale. Abbiamo fatto una festa a casa. Una  festa bellissima, con mezzo paese. Tutti a dire che orgoglio, che  bellezza Peppino, ora che sei avvocato ci devi rendere giustizia. Ma io  non lo faccio l’avvocato e non lo farò mai. Non sono parente a nessuno,  come si dice da me. Concorsi in magistratura non ce ne sono. Io quello  che faccio è lavorare in un pub dietro Campo dè Fiori. Cameriere la  notte: entro alle sette e stacco alle tre del mattino, e prendo 400 euro  al mese. Senza contratto, macché. Se rinuncio io entra un altro. Ho una  ragazza, dividiamo il fitto della stanza. Dovrei essere contento, ho  avuto bei voti alla tesi e tanti complimenti. Però ho un’angoscia dentro  che mi porta via. Io l’avvocato non lo faccio ma al paese mio non lo  sanno, e ai miei genitori gli dico ancora un po’, non salite, aspettate  che mi sistemo. Perché come faccio a spiegarglielo a loro, che hanno la  terza media, che la mia laurea non mi serve a lavorare?”

Fonte Repubblica.it

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