MAI AVREI IMMAGINATO…

Il sorriso incerto, lo sguardo intenso e carico di aspettative, la bambina non può immaginare ciò che la vita le porterà…gioie e dolori, certo, come per tutti o, forse, anche di più, ma, per fortuna, anche la capacità straordinaria di volgere in nuova energia ogni privazione, lutto o sconfitta.

La fonte di questa straordinaria capacità, Wanda stessa la individua nella rete di affetti familiari, con il calore delle loro tradizioni e dei loro riti, i profumi della cucina che può ancora facilmente evocare e il reciproco prendersi cura. Forse la madre non era capace di tenerezza ma altri componenti della famiglia certamente sì, e quella famiglia dava ai giovani regole, compresa quella di rispettare gli altri, i privilegi bisognava guadagnarseli e impegnarsi duramente per meritare l’abito nuovo dello struscio e qualunque altro dono che, in quanto raro, era apprezzato e meraviglioso. 

Wanda scrive bene, in particolare disegna scene d’interni ed è facile immaginare la casa dei nonni in cui è cresciuta, con la cucina piena di calore e profumi appetitosi.

Wanda scrive pezzi di puro teatro, come quello sulla domenica di Pasqua, chi bussa alla porta, chi entra, chi esce, il pranzo con la recita della poesia, il tenero Gianni e la peste che rimugina e fa boccacce!  

Wanda scrive pezzi cinematografici, come quelli sui luoghi di lavoro, dai reparti della Rinascente ai fasti del grande albergo, o le gite domenicali al mare.  Film in bianco e nero, con la ragazzetta magrolina, ma cocciuta e tenace, certamente non fragile, che avanza in una trama di vita che sembra preparata dal destino, che crea opportunità, occasioni, incontri.

Il mondo che Wanda descrive non c’è più, questo mondo affettuoso e severo che sapeva anche produrre giovani donne forti e ribelli, è scomparso, sostituito da una sostanziale incapacità di dare amore ai figli se non sotto forma di oggetti e di ottusa giustificazione anche dei comportamenti più aberranti, come la malvagità nei confronti degli animali o l’aggressività verso le coetanee. Le cronache quotidiane sono piene di queste tristezze. 

Si parla dei giovani traumatizzati dalla pandemia, che compiono gesti di autolesionismo, perché hanno sofferto di solitudine e limitazione della libertà di uscire e socializzare ma mi viene naturale un confronto con la   generazione di Wanda che veniva al mondo dopo una guerra devastante, che aveva lasciato lutti e macerie e in cui la povertà rendeva impossibile chiedere non solo il superfluo ma, spesso, anche l’indispensabile.

Ho conosciuto Wanda quando, dopo varie esperienze nel volontariato, è arrivata alla nostra associazione collegata alla Malattia di Huntington, una patologia genetica, cronica, di tipo neurodegenerativo. Nulla a che vedere con la storia dei suoi figli ma l’esperienza che aveva vissuto con loro la rendeva perfetta per la nostra idea di associazione di volontariato. 

Siamo convinti che il dolore non possa essere etichettato per patologie, per capire quello degli altri serve saper uscire da noi stessi, dal chiuso mondo del nostro dolore personale, e aprirsi all’esperienza di altri, mettere a loro disposizione quanto abbiamo imparato nella nostra.

Wanda, così come il suo amato Giovanni, sono stati capaci di farlo e il loro dolore di morte è diventato creazione e vita nel volontariato, Wanda lo spiega molto bene quando racconta la forza che ricava dal suo ruolo di telefono amico, quanto il sapere di poter essere d’aiuto le rinnovi l’energia per andare avanti. 

Quando Wanda iniziò a lavorare con noi, il nostro rito del mattino era un caffè insieme, nella mia stanza, e due chiacchiere prima di iniziare la giornata di lavoro. In quelle nostre chiacchiere ho imparato a conoscere i figli di Wanda, Francesco, Barbara e Fabrizio. Dico non a caso “conoscere” perché i racconti di Wanda erano così vitali che io me li vedevo davanti, ognuno con la sua definita personalità, e li percepivo vivi.

I racconti di Wanda non erano “luttuosi”, capitava che ci commuovessimo tutte e due, ma non erano sensazioni di morte.

Fabrizio, l’ultimo ad andarsene, era stato accolto alla nascita dalla profezia della nonna: questo sarà prete o santo. 

Fabrizio non è stato né l’uno né l’altro ma certamente ha fatto qualcosa che accomuna le due professioni: ha predicato. Non in senso religioso ma civile: ha predicato sui diritti, sulla cultura senza censura, sulla difesa dei più fragili.  Per questo è ancora vivo, non solo nei ricordi di Wanda ma anche nella mente dei tanti che lo hanno conosciuto.

E anche di quelli che non lo hanno conosciuto, come me.

Gioia Jacopini, Ricercatore Associato ISTC/CNR

 

Cara Wanda,

io pensavo di doverti scrivere una prefazione come fosse un favore. Di dover leggere le tue pagine senza troppa fretta (tanto un po’ di tempo c’è) e poi scrivere quella paginetta che si scrive (anche volentieri) per gli amici.

E invece mi sono trovato a leggere appassionatamente, con gli occhi che non si staccavano dalle pagine. Insomma, mi sono trovato di fronte a una donna che ha una vita incredibile (e ancora più incredibile sarebbe se tu raccontassi davvero tutto) e che poi la sa pure raccontare. Per bene. Anzi, benissimo.

Quanto ci ho messo a leggere tutto? Un giorno e mezzo, leggendo attentamente solo perché avevo altri impegni importanti e ho voluto dormire un po’). Insomma, ti ho letto d’un fiato, con l’emozione magnifica che ha chi non può smettere.

Il giorno dopo mi è venuto in mente quanto segue (sperando tu sia d’accordo). Tu hai diviso la tua vita in tre fasi: l’infanzia napoletana, l’adolescenza vissuta in gran parte lavorando, che si conclude con il matrimonio con il tuo amato Giovanni. E poi l’età adulta, quella che ti ha fatto diventare madre di tre figli meravigliosi che se ne sono andati troppo presto.

Allora: la prima fase io l’ho associata al mare, quello spettacolo naturale che tu continui ad amare perdutamente. Il mare è forza, quella forza che tu hai costruito nonostante una madre difficile, anaffettiva e spesso violenta, e un padre misteriosamente assente. Il mare è l’immagine del segreto sommerso in ognuno di noi, che tu hai custodito per rivelarcelo in queste pagine in cui anche noi ritroviamo parte di noi stessi. Ma anche dello spettacolo della vita, che allo stesso tempo affascina e fa paura.

La tua adolescenza l’ho immaginata come un fiume. L’acqua nel fiume scorre per arrivare al mare, a liberarsi. E tu, nell’adolescenza, ci porti per mano lungo un percorso che sembra segnato e che ti porta all’età adulta trovando l’amore e l’uomo della tua vita.

E poi c’è la terza parte. Io l’ho immaginata come un lago. Nonostante le tragedie che hai vissuto e di cui ci parli, c’è un senso di attonita pace nelle tue parole. Cosa possiamo fare quando la vita è tanto impietosa, quando ci tocca, come dice Amleto, sopportare le percosse e le ingiurie di una sorte atroce? Viverla, viverla fino in fondo, come hai fatto tu. Viverla cercando, appunto, di sopportarla. Anche rivivendola in queste pagine commoventi e cercando di trovare pace, come si fa quando ci si ferma a guardare un lago.

Cara Wanda, credo che a un certo punto della vita sia giusto rivivere i ricordi. Tu ne hai di meravigliosi e la tua vita è piena di amore. Non lo dico per consolarti, lo dico perché leggendo queste pagine sei tu a dirci e a dimostrarci quanto tu abbia vissuto fino in fondo tutte le tue emozioni dando tutto il tuo amore alle persone care intorno a te. Questa è la vita che bisogna vivere. Questo il tuo dono per tutti noi. Grazie, cara Wanda, grande donna e grande scrittrice.

Luca Raffaelli, Giornalista e Scrittore

 

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